Gianluca Ferrari sembra che riparta laddove si ferma Bruce Nauman
che però crede ancora, con la sua generazione, che la volontà performativa sia ancora essenziale a dare comunicazione alla parola.
Ma laddove l’americano vede ancora l’essenzialità dell’individuo e del se, proiettato in senso autoreferente, Ferrari cerca una forma di sdoppiamento perché la sua esigenza possiede una forma di razionalità
a cui l’immagine collabora, ma che non può esaurire.
Nel moltiplicarsi l'artista va ad incontrare le proprietà analitiche
del linguaggio, la ratio che fortemente lega le parole alle cose.
Per questo il silenzio risulta una forma di amplificazione
del linguaggio verbale che viene a mancare
di ogni sua occorrenza fonetica.
Gianluca Ferrari, che è tra gli artisti più maturi e analitici tra gli artisti
della sua generazione, avverte l’esigenza di porsi dentro l’opera
che egli stesso crea perché il punto di partenza è la conseguenza
della sua decisione esistenziale di porre il problema del tempo,
del suo trascorrere o del suo apparente permanere,
al centro di una riflessione artistica.
Nello stesso tempo non rinuncia al coinvolgimento totale dello spettatore
e anzi punta ad un suo coinvolgimento proprio attraverso il legame
della parola scritta e della partecipazione concettuale ancorché emotiva.
La sua è un’arte che non vuole spettacolarizzare il messaggio,
ma vuole rimanere al di qua della soglia dell’aggressione visiva,
cercando piuttosto di predisporre dei meccanismi di partecipazione
e di coinvolgimento.
La stessa progettualità va di pari passo con la disciplina espositiva,
con la qualità e accuratezza di una messa in scena
che è preparazione al discorso e non risoluzione
e assorbimento mediatico dei contenuti.
Valerio Dehò